Profughi, no ai muri. Ognuno faccia la sua parte
Tre immagini hanno fatto in questi giorni il
giro del mondo. Quella del bambino siriano che giace sul bagnasciuga,
che ci ricorda come più della metà dei 60 milioni di profughi sia
composta da donne e bambini. Quella dei disperati che abbattono il muro
di Orbà n. Infine quella della poliziotta ceca che traccia con un
pennarello indelebile un numero sul braccio di un bambino per
identificarlo. La prima è l’emblema di un dramma umanitario che non
risparmia nessuno e che colpisce soprattutto i più deboli, colto troppo
tardi in tutta la sua gravità dalla Ue e dalle istituzioni
internazionali. La seconda attesta come i muri non servano a nulla e
come la disperazione finisca per abbatterli. La terza è l’agghiacciante
dimostrazione di come l’Europa abbia dimenticato le ragioni stesse
dell’Unione e di come sia possibile ridurre ancora, a settant’anni dalla
fine della Seconda guerra mondiale, gli individui a numeri se non trova
più spazio il valore universale della solidarietà .
Siamo a un
tornante decisivo per il futuro dell’Europa: o quello della dignità
umana diviene un principio condiviso, oppure avremo il dilagare della
barbarie, con grandi praterie da percorrere per gruppi e movimenti che
fanno della violenza, e null’altro, la propria religione. L’illusione di
poter risolvere il problema con un impossibile respingimento di massa
fa nascondere a tanti la testa sotto la sabbia. Va detto perciò con
chiarezza che la questione degli esodi (vogliamo chiamarli col loro
nome?) è epocale, che è necessario trovare delle soluzioni che
consentano ai richiedenti asilo di mantenere la propria dignità di
donne, uomini, bambini.
Chi dice che bisogna andare a risolvere il
problema nei Paesi di origine creando strutture di accoglienza per chi
fugge dalla fame, dalla miseria, dalla violenza, racconta favole. Certo,
occorre agire a vari livelli: europeo, nazionale, regionale, comunale.
Ma l’emergenza non è eludibile e finora nessuno ha proposto soluzioni
alternative a quella dell’accoglienza diffusa che, sia pure con fatica,
funziona nella nostra Regione. Ma è necessario, perché funzioni meglio,
che tutti i comuni, tenendo conto delle loro caratteristiche e delle
loro possibilità , facciano la loro parte.
Chi strumentalizza la
questione per trarne consenso politico si assume una doppia
responsabilità : quella di surrogare la logica della solidarietà con
quella del rifiuto, connotata da atteggiamenti razzisti e violenti; e
quella di cercare di nascondere che il problema dell’accoglienza, sia
pur temporanea, non può essere eluso. Non solo perché è scritto con
parole chiare all’art. 10 della Costituzione, rispetto al quale
qualsiasi fantasiosa ordinanza di “sgombero” risulterebbe illegittima,
ma perché senza soluzioni i problemi di “ordine pubblico” verrebbero
acuiti invece che risolti. Ma forse è proprio quello che vogliono i
sostenitori di posizioni xenofobe che producono aggressioni, finora solo
verbali, come quella dell’assessore al welfare della provincia di
Gorizia.
Il mondo del lavoro è stato sempre al centro di fenomeni di
migrazione. Tanti pensionati, iscritti a Cgil, Cisl e Uil, sono stati
migranti in Europa, America, Australia e ricordano ancora le umiliazioni
subite. Alcuni di noi dirigenti sono stati migranti in tempi più
recenti, alla ricerca di un lavoro o di migliore qualità della vita.
Alcuni dei nostri figli stanno migrando da un Paese che è poco
accogliente nei loro confronti e che non offre più che lavoro precario e
ricattabile, spesso senza dignità . Crediamo perciò che dal mondo del
lavoro possa partire un appello alla solidarietà che vada al di là delle
generazioni e delle condizioni. Le nostre strutture territoriali si
assumeranno il compito di trasformare questa solidarietà in atti concreti, secondo le loro possibilità , prendendo contatti coi sindaci e i prefetti.
Franco Belci, Giovanni Fania, Giacinto Menis, segretari generali di Cgil, Cisl, Uil Fvg