La Cgil chiede più vigilanza per i minori assistiti

«Bastano i soldi impiegati dal Comune per mantenere a livelli dignitosi la proposta educativa, gli ambienti di vita e la qualità  della vita di bambini e ragazzi? È poco, quel denaro, oppure è molto e speso male? Come sono finiti i progetti alternativi sui quali sono state asseritamene dirottate le risorse risparmiate, dal 2005 a oggi, con la chiusura delle comunità  pubbliche? E il “Comune-cabina-di-regìa”, che fine ha fatto?». Sono queste alcune delle domande che la Cgil-Funzione pubblica, in una nota a firma Paolo Taverna, rivolge all’amministrazione comunale
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il giorno dopo la notizia in merito ai controlli delle Procura dei minori sulle condizioni igieniche all’interno delle case famiglia.
Il sindacato non entra nel merito alla situazione pesantissima che il sostituto procuratore dei minori Valentina Bossi ha sintetizzato così in una lettera ufficiale: «da quanto emerge le comunità  non sono in grado di garantire nemmeno i più elementari requisiti igienici». Ma apre un ragionamento politico. «La notizia del ritrovamento dei topi crea allarme, ma non aiuta a ragionare. Ci si chiede e lo si sarebbe potuto chiedere all’assessore: e prima dei topi? Se davvero si è giunti al topo in dispensa, quali monitoraggi sono stati fatti prima di arrivare a quel punto?». La Cgil-Funziona pubblica giudica «curiosa la sussidiarietà  in salsa comunale, se dipendono dalla presenza dei topi l’avvio o l’intensificarsi dei monitoraggi degli ambienti nei quali vivono bambini e ragazzi».
Secondo il sindacato non si parlava di comunità  educative da quando il Comune «aveva chiuso, nell’agosto 2005, le due che gestiva direttamente». Una battaglia che rimanda ai lunghi mesi di trattativa, i tentativi di conciliazione in Prefettura, l’occupazione degli spazi attigui alla «Sala Matrimoni», oltre alla raccolta di 4000 firme.
« La Cgil non si mobilitò per i tipici temi sindacali, bensì per i diritti di bambini e ragazzi, in specie di coloro che furono forzatamente trasferiti in altre comunità . Per evitare l’ennesimo travaso di risorse dal pubblico al privato, per impedire che fosse dilapidato – scrive Taverna – un patrimonio di “buone pratiche” radicato nella chiusura degli istituti sul finire degli anni ’70 e nella più avanzata tradizione pedagogica». Il Comune all’epoca, ricorda il sindacato, «voleva dismettere la gestione diretta, riservarsi funzioni generali di “regìa”, indirizzo e controllo e investire risorse in progetti alternativi alle accoglienze nelle comunità ». (da Il Piccolo, Cronaca di Trieste)